Frode commerciale e contraffazione del marchio CE: il caso del ‘China Export’

La marcatura CE è obbligatoria per l’immissione di prodotti nel mercato dell’Unione Europea. Detta marcatura, ormai apposta pressocché su tutti i beni acquistati dai consumatori, funge da “garanzia” di detti prodotti e attesta la loro conformità alla normativa europea. L’obbligo di apposizione del marchio spetta al fabbricante residente nell’UE, oppure al soggetto che per primo […] L'articolo Frode commerciale e contraffazione del marchio CE: il caso del ‘China Export’ proviene da Iusletter.

Gen 20, 2025 - 09:57
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Frode commerciale e contraffazione del marchio CE: il caso del ‘China Export’

La marcatura CE è obbligatoria per l’immissione di prodotti nel mercato dell’Unione Europea. Detta marcatura, ormai apposta pressocché su tutti i beni acquistati dai consumatori, funge da “garanzia” di detti prodotti e attesta la loro conformità alla normativa europea.

L’obbligo di apposizione del marchio spetta al fabbricante residente nell’UE, oppure al soggetto che per primo abbia importato il bene da un paese extraeuropeo.

Detto contrassegno è stato oggetto di plurime sentenze della Cassazione rese in sede penale, soprattutto in merito alla sua apposizione su prodotti provenienti da Stati extraeuropei e dediti alla produzione di prodotti di consumo (in particolare, Cina, India, Pakistan, ecc.).

Nel corso degli anni, gli ermellini hanno avuto modo di evidenziare come l’apposizione su prodotti di un marchio CE contraffatto e la loro successiva vendita al pubblico – pur non integrando il “vero e proprio” delitto di contraffazione, punito dall’art. 474 c.p. – costituisce comunque reato e, nello specifico, detta condotta integra il delitto di frode in commercio (previsto dall’art. 515 c.p.).

Ciò in quanto l’alterazione della marcatura CE compromette la garanzia di sicurezza del prodotto, ledendo la fiducia del compratore sulle caratteristiche del bene acquistato.

Al riguardo si è nuovamente espressa la Corte di Cassazione, con la recente Cass. pen, Sez. II, sent. 12 dicembre 2024, n. 45594.

Il caso deciso dalla Suprema Corte riguardava un imprenditore avente un negozio di prodotti all’ingrosso cui era stato contestato – tra le plurime imputazioni – anche la commissione del reato di tentata frode in commercio.

Ciò per aver posto in vendita, appunto, prodotti aventi marchio CE contraffatto ed acronimo di “CHINA EXPORT” (e non, invece, di “Comunità Europea”, la cui distinzione tra i due marchi è costituita da una lieve ed impercettibile differenza di distanza tra le due lettere).

L’imprenditore veniva quindi condannato sia dal Tribunale di Roma, sia dalla Corte di Appello capitolina.

Con la citata sentenza, gli ermellini hanno rigettato il ricorso proposto, ribadendo il principio – già espresso dalla Suprema Corte in relazione alla vendita di giocattoli con marchio “CHINA EXPORT” – secondo cui “in tema di delitti contro l’industria ed il commercio, l’esposizione per la vendita al pubblico di giocattoli con un marchio CE, acronimo di China Export, differente da quello CE (Comunità Europea) per la sola impercettibile diversa distanza tra le due lettere, integra il tentativo del reato di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 cod. pen., in quanto la marcatura europea non solo consente la libera circolazione del prodotto nel mercato comunitario, ma, attestando la conformità del bene agli standard europei, costituisce anche una garanzia della qualità e della sicurezza di ciò che si acquista”.

Ovviamente, precisano gli ermellini nella recente sentenza, detto principio non opera solo in relazione alla vendita di giocattoli, ma trova applicazione rispetto a tutti quei prodotti su cui il marchio CE – inteso come “Comunità Europea” – deve essere apposto.

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